lunedì 27 febbraio 2012

Cosa penso del catastrofismo

Etna - eruzione del 1971.
Il 2012 è l’anno delle fanfare catastrofiste. Non contente del fatto che il mondo è rimasto nel bene e nel male ancora in piedi dopo l’inizio del nuovo millennio, per qualche oscuro motivo legato al calendario Maya queste fanfare profetizzano per il termine di quest’anno la tanto attesa fine.
L’umanità ha sempre annoverato profeti di sventura; J.F.Rutheford, che subentrò nel 1916 a C.T.Russell, fondatore dei Testimoni di Geova, annunciò ad esempio la fine del mondo nel 1941. Io questo lo ricordo sempre ai signori Testimoni che vogliono evangelizzarmi con il sacro testo in mano e la verità assoluta nella tasca destra.
Al di là di questi casi specifici voglio però esaminare gli aspetti psicologici che animano tali profeti - non mi riferisco ai Testimoni, ma ai catastrofisti comuni. Innanzitutto essi hanno una personalità di tipo infantile e tendente allo stupore: si agitano con estrema facilità per notizie che tutti gli altri considerano sciocchezze. Sono affascinati e magnetizzati da trasmissioni televisive studiate a tavolino per loro, come Voyager. Queste trasmissioni hanno solo una parvenza di carattere scientifico, non forniscono risposte e lasciano volutamente le cose in sospeso; in poche parole sono fatte apposta per abbindolare questo tipo di personalità puerile, che aspira al mistero in quanto tale senza chiedere la minima spiegazione logica.
Su questa personalità ha terreno fertile un altro aspetto – ci arrivai per intuizione un paio d’anni fa: il catastrofismo è un ottimo alibi. Per cosa? Per non migliorare mai la propria vita, crogiolandosi nella pigrizia e nell’inerzia. Esempi pratici: a che scopo impegnarmi a smettere di fumare se tanto il mondo andrà a rotoli ? oppure: io detesto il mio lavoro, ma a che scopo cercarne un altro se tanto arriverà l’olocausto ? ecc…
Molti catastrofisti sono acuti osservatori delle vite altrui; sono attenti ad annotare questa o quella sfortuna capitata ad altri, e ciò gli serve ad alimentare la loro tesi: fare, migliorare e costruire non serve a nulla perché la vita è come un castello di sabbia - prima o poi crollerà. Sono pronti a scoraggiare iniziative di lungo periodo, invocando punizioni divine o ambientali che presto o tardi giungeranno. Affermano che l’umanità è sull’orlo della fine a causa delle continue guerre, ma basterebbe che leggessero qualche pagina di storia per rendersi conto che la nostra NON è affatto un’epoca particolarmente conflittuale. Purtroppo leggere costa fatica – è molto più facile per costoro stravaccarsi sul divano e sorbirsi le scemenze propinate dalla loro magnifica televisione a schermo piatto.
Io ne ho piene le scatole dei catastrofisti – mi sono sempre stati sull’anima. Dovrebbero svegliarsi e iniziare a crescere una buona volta. Non credo che la fine del mondo arriverà nel 2012 a causa dei Maya o degli Indiani d’America o degli extraterrestri - né arriverà gli anni successivi. Ammiro Colombo, che attese per dieci anni le sue navi e nel frattempo fu spernacchiato e deriso per tutta Europa.
Per fortuna detrattori e catastrofisti costituiscono solo una minoranza dell’umanità: una minoranza di perdenti.

domenica 26 febbraio 2012

Il periplo della Calabria, 1990

"mi bastavano una pizza Margherita e una birra per essere felice"


Il mio primo viaggio completo in bicicletta si svolse ventidue anni fa in Calabria, nel 1990. Il periplo della costa fu di circa 800 chilometri e durò due settimane. Avevo appena diciotto anni e con grande emozione presi il traghetto da Messina per Reggio e approdai sul “continente”; mi diressi verso la costa ionica e iniziai a pedalare per centinaia di chilometri con il mare per compagno.

Ricordo lunghissimi tratti di mare deserti, e canneti e ferrovia e piccoli alberghi economici isolati. Giunsi a Monasterace, dove le rovine di un tempio greco giacevano a pochi passi dal mare. Lo Jonio era grigio e agitato e il cielo minacciava pioggia – c’erano forti raffiche di vento. Erano gli ultimi giorni di agosto e la costa si stava spopolando, i turisti stavano andando via – mi rifugiai in un campeggio dove gli unici ospiti eravamo io e un napoletano un po’ eccentrico che scriveva poesie. Finito il temporale proseguii lungo la costa. Il paesaggio si movimentò verso Copanello, poi tornò di nuovo pianeggiante. Ogni tanto mi fermavo a raccogliere e mangiare fichi dagli alberi che crescevano a lato della strada – i camionisti mi salutavano con il clacson. A Cirò Marina incontrai una famiglia di napoletani che mi invitarono a cena – forse vedendomi da solo, sudato e con la bici carica volevano fare un’opera di bene. Più avanti ancora giaceva Sibari, con la sua pineta sul mare – ero quasi al giro di boa del viaggio. A bici scarica esplorai l’entroterra e raggiunsi Cerchiara di Calabria, un paese di pietra a 650 metri d’altezza con un vecchio castello in rovina; comprai l’ennesimo panino presso un alimentari al cui interno c’era un cartello metallico che diceva “Non sputate per terra – la Tubercolosi si diffonde con lo sputo”. Rispettai l'ordinanza e non sputai.

Cerchiara di Calabria, m.650
 
Morano Calabro


Avevo percorso la costa dei Greci, ora dovevo raggiungere quella tirrenica. Per farlo feci rotta verso ovest, superando le montagne della Catena Costiera. Ci impiegai un giorno, attraversai diverse lunghe gallerie che mi resero ansioso e quando uscii dall’ultima e vidi il Tirreno color verde smeraldo urlai di felicità. Viaggiare in bici è sempre così, un’alternanza di ansia, di paure, di fatiche e di vittorie che ti ripagano di tutto in pochi secondi. Ricordo che mi fermai presso un minuscolo paese, Gizzeria Lido. Le case erano quasi tutte incomplete, regnava un’aria di abbandono e povertà diffusa – era il primo pomeriggio e c’era agitazione, polizia e ambulanze: mi dissero che avevano appena accoltellato qualcuno. Trovai un campeggio non recintato che somigliava a un campo nomadi. Il proprietario oziava su un’amaca con una bottiglia in mano, era vestito di stracci e sembrava un barbone. Mi disse di stare tranquillo, che potevo lasciare il portafogli incustodito - nessuno l’avrebbe toccato. La sera mi recai in paese in una pizzeria scalcinata dove stava cenando una famiglia numerosa. I bambini si accanivano sui piatti come se quella fosse stata la prima volta che vedevano cibo. La notte saltai per aria perché sentii calpestii e poi un raspare sul telo della tenda, di sicuro era un cane. Il mattino dopo mi recai alla “direzione”, una baracca pericolante in blocchi di calcestruzzo e tetto di Eternit, dove le figlie del proprietario barbone non mi fecero pagare nulla e mi augurarono buon proseguimento. Spesso i poveri sono più generosi dei milionari, pensai.
La costa tirrenica aveva un’orografia più complessa, con numerose salite. Non avevo nessuna fretta e le affrontavo con calma. Dopo Vibo Valentia la strada perdeva quota con numerosi tornanti in un’ampia vallata verde costellata da ulivi secolari. A Mileto un’anziana contadina vestita di nero mi offrì della frutta. Dei giovani mi lanciarono da un’auto un insulto che non capii ma che ricambiai – forse neanche loro capirono, perché non si fermarono. Mi accampai presso Gioia Tauro, dove il paesaggio era stato stravolto per far sorgere un grande polo metallurgico; ettari di agrumeti erano stati spianati dalle ruspe. Spesso nei campeggi ero l’unico cliente, e questo non mi dispiaceva. Guardavo il sole spegnersi sul mare e scribacchiavo il diario di viaggio. Dormivo sonni beati in un sacco a pelo sintetico leggero, dentro una tendina da 50 mila lire. La sera mi bastavano una pizza Margherita e una birra per essere felice, oltre al conteggio compiaciuto dei chilometri percorsi. Attraversai in sequenza Palmi, Bagnara Calabra, Scilla; a volte la Statale correva a picco sul mare, che rumoreggiava in fondo. Infine rividi di nuovo le case gialle di Reggio, dove l’anello si concludeva. La Sicilia giaceva dall’altra parte dello Stretto, in una splendida giornata luminosa di settembre. Presi il traghetto per Messina, dove i miei mi aspettavano: loro erano contenti, ma io più di loro. Avevo concluso un viaggio forse insignificante, ma che all’epoca costituì per me, sbarbatello diciottenne, una grande e memorabile avventura. 


Sul traghetto per Messina, settembre 1990.







sabato 25 febbraio 2012

Il mio film preferito


Il mio film preferito: ne ho visti a valanghe, di film. E sarebbe facile e ovvio citare opere complesse e famose come Odissea nello Spazio ecc., ma io voglio parlare di un film che pur non essendo né complesso né famoso mi commuove nel fondo dell’anima ogni volta che lo vedo: si chiama Un Ragazzo di Calabria, di Luigi Comencini, 1987. La colonna sonora, bellissima, è di Antonio Vivaldi.
Ambientato nella campagna tirrenica calabrese e girato in primavera-estate, il film racconta la storia di Mimì (S.Polimeno), un ragazzo figlio di contadini che ama correre. E’ ostacolato dal padre (Abatantuono), che teme che questa passione per la corsa lo distolga dallo studio, e segretamente incoraggiato dalla madre e da un autista di pullman zoppo (Volontè) che per proiezione lo allena sino a portarlo alla vittoria. Mimì è povero, non ha le scarpe adatte ma vuole ugualmente inseguire il suo sogno.
Si allena da solo, all’alba, di nascosto. Corre a piedi scalzi nella campagna assolata del sud, tra ulivi e muri a secco. Corre contro la volontà del padre, contro l’ignoranza di chi lo deride. E alla fine vince. E’ una metafora sul credere in se stessi, sull’inseguire le proprie passioni, che mi ha sempre toccato nel vivo. Vidi per la prima volta questo film 22 anni fa, nel 1990, giusto prima di partire per il mio primo viaggio in bicicletta, proprio in Calabria. E non ho dubbi: pur non essendo un film da intellettuali, impegnativo o osannato dalla critica, Un Ragazzo di Calabria è rimasto fino a oggi, per la sua toccante semplicità, il mio film preferito. 
  

lunedì 20 febbraio 2012

Sicilia d'inverno



Una volata in Sicilia per portare avanti le pratiche di costruzione della nuova casa. Lasciamo il nord con la sua neve sporca ancora sulle strade e atterriamo a Palermo, umida per l’acquazzone appena passato. L’atavica diffidenza verso i trasporti ferroviari siculi è subito fugata: il collegamento tra l’aeroporto e la città è un capolavoro di efficienza e puntualità, il treno un vero salotto. Poi è la volta del treno per Messina, che corre nel pomeriggio che si spegne lungo la costa dei miei vent’anni, tra canneti e fiumare e montagne e orti e agrumeti e gallerie e caselli abbandonati colore rosso mattone esposti alla salsedine.
Incontro con il geometra, che è un normanno, corpulento e occhi azzurri. Ha lo studio dentro un vecchio palazzotto baronale. Dai vetri ottocenteschi vedo le montagne imbiancate di neve dai mille metri in su, e la sagoma dell’Etna lontana. Tre ore di colloquio strategici per stabilire dettagli, spostare muri al computer, discutere di porte e finestre, fognatura e permessi. Firmiamo un numero incalcolabile di fogli - la burocrazia di un sogno.
I giorni che seguono sono baciati dal sole. La Sicilia non è mai triste, neanche in pieno inverno. Il verde e i fiori gialli, l’odore di legna bruciata della pizzeria dove andavo vent’anni fa, certi angoli rimasti immutati, sempre gli stessi. La stazione ferroviaria dove nell’estate dell'84 presi un treno con mio padre; questo treno era una littorina diesel colore marrone che nel corso del viaggio di ritorno si guastò fermandosi per quasi due ore in aperta campagna, a sera ormai inoltrata. Mi fanno ridere quelli che si lamentano per un quarto d'ora di ritardo, e possiedono sofisticati telefonini con i quali avvertono rabbiosamente i familiari: all'epoca i cellulari erano fantascienza, e chi era a casa non aveva modo di ricevere notizie.

Mio padre e la sua tavola. Un cous cous fatto con melanzane che sembrano pasticcini, e le salsicce col finocchio selvatico e le erbe di campagna. Il profumo dell’aria, il rumore del mare.
Strane voci verbali

Strana avifauna locale


E’ stata ancora una volta Sicilia. Questa volta da un’angolazione nuova. Siamo dentro il nostro sogno, adesso. E ho quasi paura di essere felice, perché il primo che ancora non riesce a crederci sono proprio io.  


martedì 14 febbraio 2012

Gli animali di Gerenzano


Voglio dedicare due righe al parco degli Aironi di Gerenzano, a pochi chilometri da casa mia. Negli anni in cui ho risparmiato per realizzare il cambio di rotta della vita non ho fatto grandiosi viaggi internazionali – niente Mar Rosso né Capo Verde o Cuba ecc. – mi sono spesso accontentato di passeggiare in questo parco, che mi ha sempre ripagato con un gran senso di calma. Non è il solito giardino urbano sporco e frequentato da mala gente. E’ un’area verde piuttosto vasta, ricavata da una ex cava; gli alberi non è che siano una meraviglia, sono piuttosto sgangherati forse anche perché ne hanno piantati troppi a distanza ravvicinata, ma in primavera si riempiono di verde e fanno la loro figura. C’è un lago che ospita uccelli e anatre; se ci fosse anche un piccolo capanno per i fotografi sarebbe perfetto. In assenza di esso i volatili scappano via già a quaranta metri di distanza e non fanno ritorno per un bel pezzo. Ci sono spazi molto ampi dedicati ai cervi e ai mufloni. Questi ultimi sono molto più collaborativi. Li ho fotografati a lungo con il 70-300 mm, approfittando soprattutto della luce dorata che c’è al tramonto, e devo dire che mi sono divertito un mondo.
Quando mi trasferirò in Sicilia porterò con me il ricordo di Gerenzano e del suo parco, tra i pochi angoli di natura presenti in una delle aree più industrializzate e trafficate d’Italia.
Mother and son

Mufloni a passeggio

Una folaga impegnata a pescare

Anziano e solitario

Germani reali in volo

Having an argument

domenica 12 febbraio 2012

La nascita di Littoria

L’impazienza è nemica dei sogni.
La mia bicicletta da viaggio si chiama Littoria, e a breve compirà due anni. Quando nel 2009 rifiorì di nuovo nella mia testa l’idea del lungo tour attraverso l’Europa, iniziai a darmi da fare per reperire un mezzo opportuno. Possedevo una bici da turismo con telaio in acciaio, ma la misura non era la mia, era un telaio troppo alto per me. La donai a P., un collega extracomunitario. Non volevo acquistare una Mountain Bike, troppo pesante e inadatta alle lunghe percorrenze su strade asfaltate – la scelta cadde su una cosiddetta City Bike, che avrei eventualmente modificato. Mi recai presso un grosso centro commerciale, il Decathlon, dove avevo adocchiato qualche modello interessante; le bici c’erano ma non appena proponevo una modifica la risposta era sempre no – l’atteggiamento, che già conoscevo, era quello tipico dell’impiegato del grosso centro: “senti fratello… nulla di personale, io qui non sono stipendiato da te ma dai francesi – non posso ma soprattutto non voglio assecondare le tue esigenze, neanche cambiando un bullone: se la merce che vedi ti va bene la compri, se no in questi cinque minuti sono già entrate in negozio altre venticinque persone…”
Tagliai corto e me ne andai – mi venne in mente un negozio di bici a dieci chilometri da casa mia. Era gestito da Claudio, un meccanico sessantenne che assemblava mezzi da corsa e non. Gli proposi di acquistare il solo telaio in alluminio di una City Bike e successivamente di montargli i pezzi scelti ad hoc. Dopo un iniziale tentennamento accettò. Io ricambiai la disponibilità evitando di fargli premura, di assillarlo con domande nevrotiche e premurandomi in prima persona di reperire informazioni e pezzi dove potevo. Nell’autunno di quell’anno arrivò il telaio di alluminio e inizio a nascere la mia bici.
Una cura particolare fu riservata alle ruote. Sono costituite da mozzi per Mountain Bike Deore-XT a 36 fori, di altissima qualità. I raggi sono inox da 2mm, di fabbricazione svizzera, incrociati “a quattro” nel montaggio, per rendere la ruota rigida e resistente alle sollecitazioni del carico – questo particolare montaggio lo avevo letto su un manuale di cicloturismo di vent’anni fa, e per fortuna il meccanico era in grado di realizzarlo. I copertoni sono gli ottimi Michelin Pilot 700x35C.
I cerchi li procurai io dalla storica ditta Ambrosio. Sono in alluminio a doppia camera. L’unica stranezza che non mi convince è la presenza di un solco sul piano di appoggio del pattino del freno. Temo che dentro quel solco ci finiscano detriti che sporcano il pattino stesso; ho scritto un’e-mail all’Ambrosio, che mi ha replicato che quel solco non è dannoso ma è un utile indicatore di usura del cerchio. Io ho constatato invece che quell’accorgimento accumula terra esattamente come pensavo, ed è perfettamente inutile. D’altronde elaborare una cosa già buona rendendola meno buona fa parte delle logiche di mercato.
Cambio, guarnitura e ruota libera sono della Shimano, sempre da Mountain Bike; la gamma di rapporti è tale da poter scalare l’Everest con 60 chili di bagaglio. Il manubrio non lo scelsi da corsa: i freni sono relativamente troppo distanti e la posizione bassa, quella aerodinamica, in viaggio non si usa mai. Scelsi una piega strana, si chiama Butterfly, molto usata in Germania. Consente di rilassare la schiena e avere sempre i freni a portata di dita. L’impianto frenante è di tipo U-brake, di un’efficacia impressionante. Un altro mondo rispetto ai vecchi pattini ridicoli usati vent’anni fa. Per il portabagagli ebbi qualche esitazione: montare il costosissimo Tubus-rack tedesco o lasciare il materiale di serie ? Optai per la seconda ipotesi, ma non fidandomi delle risicate saldature ne feci aggiungere di altre da un caro collega manutentore presso la ditta dove lavoravo. La letteratura di viaggio in bici è stracolma di portabagagli che cedono – vedremo come andrà.


Poiché sono in parte un idiota, e gli idioti ripetono gli errori, tornai al Decathlon a procurami una sella della marca Bassano, sedotto dal prezzo abbordabile di 16 euro. Questa sella si deformò sulla sinistra dopo poche decine di chilometri e in più risultò scomodissima, una vera schifezza. Acquistai una sella San Marco di costo ben superiore, e con quest’ultima mi trovo a meraviglia. I dettagli, infine: smontai l'inutile e pesante dinamo e la sostituii con una torcia a led leggerissima e asportabile. La luce posteriore è di dimensioni maggiorate, a batteria, visibilissima nella nebbia. Il cavalletto lo eliminai, pesava e non era affidabile. Il ciclo computer l’ho acquistai su internet: è il BC1609 della Sigma, l’unico di fascia bassa di prezzo ad avere la funzione che mi interessa di più oltre ai chilometri: il termometro. Uno degli accessori più utili è lo specchietto retrovisore, costato pochi euro. Vi ho applicato un nastro rosa che incuriosisce tutti, e io spiego il perché: Littoria è la mia compagna, ed è femmina.
La gestazione di questa bici durò circa sei mesi, da settembre del 2009 a febbraio del 2010. La ritirai il piovoso pomeriggio del 6 di marzo, giorno del mio 38° compleanno. Mi feci scattare una foto insieme a Claudio, che sembrava contento quanto me e mi augurò di cuore buone pedalate.
Percepii che per lui Littoria non era stata una bici qualunque, tra le migliaia che aveva assemblato nella sua carriera.
Grazie Claudio, per aver partecipato con entusiasmo al mio sogno.
6 marzo 2010. Passaggio di consegne.

I mozzi Deore-XT di Shimano, a 36 fori.

Il telaio in alluminio e il marchio del meccanico assemblatore.

Raggi, cerchi, copertoni e freni.

Il computer con termometro e la piega manubrio 'Butterfly'.

giovedì 9 febbraio 2012

Un sogno dentro il sogno


Il richiamo della Signora Strada. Un sogno dentro il sogno – un’attesa durata quattordici anni. Il progetto è quello di partire da casa e raggiungere la Scandinavia in bicicletta. Nulla rispetto a chi ha realizzato ciclo-imprese ben più grandi come il periplo dell’Africa, la Russia da Mosca a Vladivostock, l’America da Ushuaia all’Alaska, ma è il mio viaggio, e ne vado fiero. Ormai non ci pensavo neanche più, era un giocattolo vecchio buttato nel dimenticatoio della vita – poi un mattino di gennaio di tre anni fa mentre stavo per andare al lavoro ho visto il sole sorgere sulla pianura ghiacciata e innevata – pensai alla Scandinavia e ricevetti da non so dove un ordine interiore: rimettere in moto quel sogno. Ne sarò degno, sto chiedendo troppo alla vita ?
Voglio partire a Marzo, il mese in cui sono nato.
La mia compagna pesa 16 chili e si chiama Littoria; è nata nel 2010.
Il resto lo decideranno il destino, la fortuna, la buona volontà, la salute fisica e non so cos’altro.
La Signora Strada chiama.

lunedì 6 febbraio 2012

Memorabili, irrefrenabili risate

Il defunto riposa in pace. Sulla destra il registro delle offerte.

Prendersi gioco di persone o istituzioni che in qualche modo ci tengono assoggettati è sempre piacevole; questo lo sanno bene gli studenti, sempre pronti a fare il verso agli insegnanti più antipatici e a ridere di loro quando gli capita qualche inconveniente. Nel corso della vita questa voglia di ridere si ripresenta spesso, perché ridere dell’autorità ci fa sembrare più sopportabile l’autorità stessa.
Gli ultimi dieci anni passati da lavoratore dipendente non è che per me siano stati fonte di divertimento, semmai potrei definirli una vasta palude di monotonia con rari momenti di gioia, di gratificazione. Una volta soltanto però, e fu memorabile, mi feci tante di quelle risate da non poterne più.
Ebbene, un paio di anni fa l’azienda dove lavoravo doveva festeggiare non ricordo bene cosa, e in quell’occasione l’invito era rivolto anche al pubblico esterno. Ci fu gran movimento di lucidatura, pulizia e abbellimento dei grigi capannoni lombardi. Furono ordinati anche piante e fiori. In particolare qualcuno ebbe la felice idea di collocare un cuscino di fiori simili ai crisantemi su un mobile del locale reception. Il fatto è che il mobile era di noce scuro lucido, e quella composizione sembrava esattamente una corona da morto. Non appena la voce cominciò a circolare iniziò una lunga processione di dipendenti che si recavano a curiosare, rendendo omaggio alla salma immaginaria e scattando fotografie alla lugubre composizione. L’addetto alla reception, il signor G., da buon siciliano faceva le corna e si toccava i marroni. Come se non bastasse qualcuno appoggiò un blocco per appunti vicino al cuscino funerario, tanto che sembrava ci fosse anche il registro per le offerte.
Ora c’è da dire che io sono sensibilissimo al cosiddetto humour nero, di cui gli inglesi fanno largo uso. Se poi a questo aggiungiamo quel desiderio di ridere “dell’autorità” di cui dicevo all’inizio, è facile immaginare che ciò ebbe su di me un effetto esilarante devastante. In pratica iniziai a ridere alle dieci del mattino, quando fu annunciata la presenza del defunto, e smisi alle 19 circa, quando finii di raccontare la vicenda a casa.
Non dimenticherò mai quel giorno di sane, liberatorie risate. Rammento anche che a seguito del troppo ridere mi venne un mal di testa doloroso e resistente ai farmaci, localizzato nella zona occipitale sinistra.
Questo mal di testa durò due giorni e fu fastidiosissimo - ma ne valse la pena.


sabato 4 febbraio 2012

I miei due libri preferiti

Dal 2005 al 2008 mi sono impegnato a leggere l’intera (o quasi) narrativa italiana dal 1900 a oggi. Il genere che ho ripudiato di più è risultato essere quello dei cosiddetti Sperimentalisti, branca della letteratura di Sinistra prodotta negli anni ’60, insulsa e incomprensibile. A tutt’oggi i libri che a pari merito reputo personalmente i più belli, i miei preferiti, sono: Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, e La Conchiglia di Anataj di Carlo Sgorlon.
Il primo parla del confino del medico-artista Levi in Basilicata, in pieno ventennio fascista. E’ un racconto in prima persona che segue il corso delle stagioni, un diario realistico e incentrato sul popolo dei contadini, sulle loro miserie e brutali fatiche, le loro superstizioni. Il paesaggio della Basilicata mi ha sempre affascinato con i suoi canyon brulli e aridi, i suoi paesi di pietra arroccati su nude colline color ocra. E’ una regione che richiama spazi aperti tipo west, e antichità, tradizioni, richiami di un mondo perduto. Nel 1992  vi viaggiai in bicicletta per pochi giorni, e mai dimenticherò la generosità e l’ospitalità dei Lucani. Mi piacerebbe affrontare un nuovo viaggio in quella terra, prima o poi. Dal racconto di Levi è stato tratto un film di ottima fattura, quasi bello quanto il libro, che ho riletto quattro volte.

L’altro libro mio preferito è stato scritto dal friulano Sgorlon, scomparso nel 2009. Narra le vicende di un gruppo di operai italiani emigrati nell’estrema Russia al tempo dello Zar, assoldati  nella costruzione della leggendaria linea ferroviaria transiberiana. Il libro descrive le imprese al limite dell’impossibile di quei poveri lavoratori annichiliti dalla lontananza e dalla nostalgia, impegnati a disboscare tratti di foresta, erigere cantieri, ponti di legno e acciaio, dragare paludi ghiacciate in una natura ostile e popolata da orsi, quella della Taiga siberiana e del suo freddo micidiale.  Su di loro veglia Ajdym, una donna che è la sublimazione della figura femminile, moglie e madre-protettrice nello stesso tempo. La Conchiglia di Anataj è un racconto di intensi sentimenti, commovente e malinconico, struggente e bellissimo. Se fossi un regista, ci farei subito un film. A breve lo rileggerò per la terza volta.

giovedì 2 febbraio 2012

I primi giorni di libertà

I primi giorni di libertà profumano di neve, elemento a me caro. Meno auto e più bici. Ho lasciato l'orologio a casa. Zaino e Nikon sempre attaccati a me. Mi accorgo che dopo le dimissioni continuo con mia sorpresa a esistere come entità fisica - non mi sono  smaterializzato, non mi sono dissolto. Perlomeno non ancora.




Uccelli del buon augurio, spero.